In meno di due giorni, dicono i titoli di sabato 4 maggio, si sono
consumati tre femminicidi: a Castagneto Carducci è stata trovata morta Ilaria Leone, di 19 anni, probabilmente strangolata dopo aver
rifiutato il suo aggressore; stessa sorte per Alessandra
Iacullo, di 30 anni, accoltellata ad Ostia vicino al suo scooter; e infine Chiara Di Vita, di 27 anni, uccisa da due colpi della pistola del
marito, guardia giurata, che dopo l’uccisione della moglie ha sparato un terzo
proiettile togliendosi la vita.
Di femminicidio si parla solo ultimamente. Le violenze fisiche, sessuali e
psicologiche sono considerate reati da tempi piuttosto recenti. La violenza di
genere sembra essere ben radicata nelle abitudini e nei pensieri degli
italiani, si racconta come un gesto di routine, forse inevitabile ma legato ad
un amore malato. Per averne conferma basta pensare che il delitto d’onore è diventato fuori legge solo nel 1981, che la violenza sessuale è considerata delitto contro la persona (prima era contro la
moralità pubblica e il buon costume)solo dal 1996, che lo stalking è fuori legge dal 2009.
Oggi i numeri continuano ad essere alti (le donne uccise nel 2012 sono 117)
e si continuano a leggere titoli che parlano di delitti passionali, follie
d’amore, di gelosia. Nonostante se ne parli abbastanza negli ultimi tempi, è
molto difficile farlo in modo chiaro e giusto.
Per questo abbiamo contattato Loredana
Lipperini, giornalista e conduttrice radiofonica. Autrice di “Ancora dalla parte delle bambine”, “non è un Paese per
vecchie”, “di mamma ce n’è più d’una” e, insieme aMichela Murgia, di “L’ho uccisa perché l’amavo”, tratta con una
brillante arguzia delle discriminazioni di genere di cui racconta anche sul suo blog (qui il link).
Le abbiamo fatto qualche domanda per cercare di capire qualcosa in più
riguardo a questioni di cui tutti parlano, forse un po’ per posa, senza mai
scendere nel profondo cercando di capirne i motivi.
Femminicidio: si legge che in Italia le donne uccise
da uomini con cui avevano legami affettivi sono circa 130 ogni anno, almeno per
quanto riguarda gli ultimi 5 anni. Si tratta di un risultato della cultura del
nostro Paese di cui si parla solo negli ultimi anni, oppure di un “ritorno”
dell’imposizione maschile nei tempi più recenti?
Credo che sia molto difficile trovare una causa unica. Quello che si può
dire è che le donne uccise erano, nella maggior parte dei casi, donne che
abbandonavano il compagno. E che chi le ha uccise erano uomini abbandonati.
Questa è la drammatica costante cui ci troviamo di fronte. Quanto ai numeri, è
difficilissimo fornirne, perché quelli che abbiamo si devono esclusivamente
all’impegno delle donne che curano blog dedicati o lavorano nei centri
antiviolenza. Se ragioniamo sui rapporti a disposizione (Istat, ministero degli
Interni) possiamo solo dire che le donne sono il 25% circa delle vittime
di omicidio (circa600 l’anno, di cui 150, appunto, donne), mentre quasi il 90%
degli assassini sono uomini. Nude cifre, ma significative.
Al seminario “Parlare civile” è stata molto chiara:
non si tratta di raptus, di delitti passionali, di follia. Di cosa si tratta
quindi? Di pura e semplice gelosia?
Ancora una volta, di molti fattori: uno su tutti, una cultura del possesso
da cui non si è ancora riusciti a uscire. Del resto, l’abolizione del delitto
d’onore è recentissima: 1981. Troppo vicina per poter cambiare una cultura
millenaria.
Secondo la criminologa statunitense Diana Russell, le
vittime di questo tipo di violenza scontano il fatto di aver
trasgredito al ruolo ideale di donna imposto dalla tradizione – quello della
donna obbediente (Madonna) oppure sessualmente disponibile (Eva) – di essersi
prese la libertà di decidere cosa fare della propria vita. (“Parlare
civile”). Lei si trova d’accordo o pensa che ci sia dell’altro?
C’è sempre dell’altro anche se la sintesi di Russell è più che corretta.
L’altro, per esempio, è nel fin qui insufficiente approfondimento di
quanto gli stereotipi del maschile pesino sugli uomini: è un lavoro necessario
ma che ancora troppo pochi uomini hanno intrapreso.
Mi piacerebbe conoscere il suo punto di vista riguardo
alla concezione italiana di “pari opportunità” (sto pensando ai vari nomi in
rosa come quote rosa, aziende rosa, parcheggi rosa… e alle alte cariche del
nostro Paese coperte per la maggior parte da uomini).
Purtroppo, c’è un enorme fraintendimento in proposito: sembra che le pari
opportunità siano un attentato alla meritocrazia, come se richiederle
costituisse una diminutio delle capacità delle stesse donne. Ma quando in
un’antologia letteraria sono presenti quattro donne su venti nomi, quando in un
premio letterario non c’è una sola candidatura femminile (o una al massimo) si
deve pensare che non esistono brave scrittrici o che non vengono “viste” da chi
decide? Questo, solo per restare in ambito editoriale (ma il parallelo con il
mondo politico e del lavoro è presto fatto, credo). Una sottolineatura
polemica: non è detto che i comitati Pari Opportunità agiscano sempre nell’interesse
delle donne. Credo che la scarsa considerazione che si ha del concetto si debba
anche al fatto che in non pochi casi chi fa parte di quei comitati è emanazione
di questo o quel partito e non abbia reali competenze: basti pensare al caso
della statua “Violata” voluta dal comitato Pari Opportunità della Regione
Marche ed eretta ad Ancona, senza gara pubblica, con il riciclo di una vecchia
statua che si chiamava “Donna con borsa” e mostrava un corpo femminile con
vesti stracciate su seno, pube e glutei e trasformata in simbolo della violenza
contro le donne. Nonostante le proteste di migliaia di persone, donne e uomini,
le risposte del comitato sono state di scherno,quando non d’insulto. Una
piccola storia, esemplare nella sua nefandezza.
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