Urlo Violata è di Carla Giacchella, Gioconda Violata e Venere Violata sono di Eugenio Saguatti

Che storia è questa?

Il 23 marzo 2013, appena fuori da una galleria e dal centro di Ancona, viene inaugurata “Volata”, il monumento in onore delle donne vittime di violenza, voluto da diverse istituzioni tra cui il Comitato per le Pari Opportunità tra Uomo e Donna della Regione Marche e realizzato da Floriano Ippoliti sul modello di una sua precedente opera titolata Donna con borsa. La statua, un po’ per il colore, un po’ per l’opinabile messaggio, viene prontamente avvistata da Emanuela Ghinaglia, rappresentante del comitato Se non ora quando di Cremona, che lancia un appello su facebook al fine di rimuoverla. Cristina Babino e Alessandra Carnaroli sono le promotrici della petizione, che nel giro di pochi giorni supera le 1700 firme, loro iniziativa anche i numerosi appelli e comunicati stampa rivolti alla Commissione Pari Opportunità nella continua ricerca di un confronto e un dialogo sulla questione.

Violata ha già iniziato un nuovo viaggio e ha già conquistato nuovi significati, grazie a tutti coloro che hanno partecipato ironicamente, artisticamente, ideologicamente, concettualmente, teoricamente e praticamente alla protesta. Questo blog prova a raccogliere i contributi, gli articoli e la documentazione relativa alla vicenda, senza escludere anche i pareri favorevoli alla statua.

Qualsiasi sia il destino di Violata speriamo non sia quello di rappresentare le donne vittime di violenza, nella speranza che questo episodio sia l’espediente per affrontare meglio la quotidiana tragedia di cui le donne non dovrebbero più essere protagoniste, perché il rispetto è un diritto SEMPRE, come recita la targa su cui poggia Violata…

Elena Pascolini


sabato 30 marzo 2013

Un monumento alle donne violate. Quando immagini mute dicono quel che le comunità sentono di Louise Bonheur


Violata è il titolo di un'opera inaugurata sabato scorso ad Ancona. 
La prima statua in Europa in onore delle donne vittime di violenza - così viene presentata da diversi giornalisti - è un'opera realizzata per il comune dallo scultore Floriano Ippoliti.
Fattezze giunoniche per un simulacro di donna a testa alta con abiti stracciati sui punti giusti e, pertanto, sodi seni e glutei al vento, vita molto bassa e gambe divaricate. Completa il tutto una borsetta con manico, un pò vintage. 
Ah, dimenticavo: il tutto è incomprensibilmente blu, per la gioia degli estimatori di Avatar (o di Puffetta).


Come nasce l’opera? Così risponde Floriano Ippoliti ad un quotidiano online abbruzzese: 
Ero rimasto molto colpito da un fatto di cronaca avvenuto due tre anni fa: una signora tornando dalla spesa era stata violentata e uccisa. Mi chiesi  come avrei reagito, cosa avrei provato se fosse successo a mia moglie. La cronaca ci riporta immagini di donne violate con il capo reclinato, in atteggiamento di grande sofferenza e grande timore. Io invece ho voluto rappresentare una donna che reagisce,  che per prima cosa raccoglie la sua borsa e poi rialzandosi guarda fiera al futuro, non lasciandosi intimidire dalla violenza subita”. 
Taglio corto: io trovo questa immagine un pugno nell'occhio prima ancora che una rappresentazione stereotipata e controproducente di un fenomeno.
È sempre piuttosto imbarazzante dire di un'opera artistica che la si trova brutta, semplicemente brutta. Ma se c'è una libertà dell'espressione artistica, perché non dovrebbe essercene una, pura e semplice, di chi ne fruisce? 
Detto questo, il tema affrontato da Ippoliti è un tema sociale di grande rilevanza, che chiama in causa chiunque. Per questa ragione la riflessione sul come lo si rappresenti è doverosa, non perché ad un'artista si debbano imporre solo opere in qualche modo didattiche, che fotografino correttamente la realtà, ma perché   la genesi di quel come probabilmente ci fotografa come comunità, dicendo molto del modo in cui il fenomeno è sentito. Tanto più che la statua di Floriano Ippoliti è stata voluta e poi accolta da una comunità, dai suoi rappresentati istituzionali, da diversi cittadini e perfino da alcune associazioni femminili, stando a quanto riportato da alcuni notiziari online locali (Fonte: Notizie di zona).

È lo stesso Ippoliti a dire che lo spunto per il suo lavoro è stata una reazione emotiva ad una notizia di cronaca (presumibilmente conforme ai consueti canoni giornalistici sull'argomento, ovvero sbattuta in faccia con un misto di approssimazione e morbosità splatter). 
Verosimilmente l'impatto della notizia ha immediatamente innescato l'immedesimazione, la fatica di tollerarla e il bisogno conseguente di fuggire un dolore toccato in vivo per poco meno di un'istante. 
In circostanze come queste, ci si porta però appresso l'orribile idea che la prossima volta possa anche toccare a te (se si è donne) o a tua moglie.
Se si è - almeno - avuta la lucidità di non attribuire la colpa alla stessa vittima (per i suoi vestiti provocanti per esempio) è effettivamente piuttosto difficile pacificarsi l'animo ed estrarre se stesse o la propria moglie/sorella/figlia dal novero delle possibili "prossime".
L'informazione appiattita sulla sola emozione produce questo: attiva, ed anche parecchio, ma innesca reazioni piuttosto che conoscenza e creazioni.
Di qui al sentire l'urgenza di negare l'effetto di un atto che uccide, immaginando (e augurando) una veloce resurrezione con tanto di borsetta alla mano, il passo è breve. E - come 'Violata' insegna - non è detto che a quel punto non risbuchino dalla finestra certi stereotipi sull'aspetto delle candidate ideali alla violenza che magari si erano cacciati via dalla porta principale del regno delle intenzioni.
Molte donne impegnate in una riflessione critica sulla rappresentazione del femminile nei media (Michela Murgia, Lorella Zanardo, Loredana Lipperini, Luisa Betti, le blogger di Vita da Streghe e Un altro genere di Comunicazione, solo per citarne alcune) hanno più volte sottolineato la pericolosità di una comunicazione sul tema della violenza di genere che raffigura la donna come bersaglio fragile da proteggere dal rischio - connaturato all'essere donna, secondo questa visione - di essere "sporcata".
Rappresentazioni del genere schiacciano le donne nel ruolo di vittime e mistificano la realtà insinuando sottilmente che donne forti e volitive siano immuni dal rischio di subire violenza, idea ampiamente contraddetta dai dati. 
Paradossalmente però, nel caso dell'artista Ippoliti l'obiettivo di rappresentare una donna non schiacciata, ma in grado di rialzarsi e guardare al futuro, ci consegna un'immagine stridente che non a caso non può che chiamarsi, ancora e soltanto, Violata.
Quell'auspicio - abbastanza superficiale - che le donne sappiano non farsi intimidire, mi fa sorridere amaramente, perché i segni della violenza sono lividi nella psiche e spesso sul corpo, mai timidi rossori facili da scacciare, magari con un pò di selfhelp. 
Qualcosa accomuna le "rose bianche sporcate dalla nera violenza" (di una nota campagna istituzionale) e l'eroina blu-avatar di Ippoliti.
Azzardo un'ipotesi: mentre nel primo tipo di immagini si mette in scena la volontà di tutelare unprima mitico connotato dalla purezza e dalla bontà di chi, in quanto pura e fragile, non merita la violenza, nella rappresentazione  un pò bionica di Ippoliti si auspica una sorta di tutela del futuro, ma quello di chi? 
L'idea che la donna assuma in qualche modo la violenza subìta e la metabolizzi velocemente, in fondo non è nuova, al contrario, mi sembra richiami una retorica patriarcale che santifica le donne-madricoraggio in grado di passare oltre a dolori anche estremi pur di garantire il futuro dei figli/della comunità, facendosi forza per gli altri. 
Il passato ed il futuro anteriore mi sembrano i tempi privilegiati da entrambe queste tipologie di rappresentazioni del fenomeno.
Ma chi si farà carico, con le donne che vivono la violenza, del loro presente e del loro futuro prossimo?
Le nostre comunità non sono probabilmente ancora del tutto disposte a farlo, lo rappresentano molte comunicazioni istituzionali come molte prove artistiche (o pseudo-tali).

Di Louise Bonheur
http://al-mafraj.blogspot.it/2013/03/un-monumento-alle-donne-violate-quando.html

venerdì 29 marzo 2013

Statua di Ancona sulla violenza sulle donne: la donna violata...due volte di Marianna Leone


Sabato 23 marzo è stata inaugurata ad Ancona una statua emblema sulla violenza delle donne. Nonostante i buoni propositi da cui è partita l’idea, la statua ripropone gli stereotipi che affliggono il corpo e la figura femminile. Probabilmente non hanno comunicato all’artista che il motivo dell’opera era “violenza di genere” e non “calendario Pirelli” e non stupisce certamente alle donne sapere che questa espressione artistica sia stata creata da un uomo. A testimonianza di ciò si nota come la donna “Violata” sia stata appositamente resa con un profilo perfetto, diversamente dalle precedenti opere dell’autore, in particolare la “donna con borsa” da cui è stata tratta l’opera in questione, che presentava lo stesso identico modello ma con forme molto più imperfette ed “umane”, che ricordavano molto di più una donna reale,piuttosto della pin-up di Ancona.

Il corpo, rigorosamente alto e longilineo, con una siluette invidiabile ad una top model e i seni, chiaramente appena rifatti, suggerisce che la realizzazione finale dell’opera si sia discostata fortemente dall’iniziale idea per cui è stata commissariata.

Altro stereotipo da film americano è la borsetta da passeggio che la donna violata porta con se, che suggerisce una violenza avvenuta all’esterno, a seguito di un incontro accidentale con uno sconosciuto: sappiamo benissimo invece che la maggior parte degli stupri avviene proprio dentro le mura domestiche e per opera di uomini conosciuti dalla vittima o più spesso dai suoi stessi familiari. È paradossale il fatto che una statua, che dovrebbe porsi come simbolo della violenza di genere, sia la riproduzione, in realtà, di un’immagine maschilista che con grande sforzo, da tempo, le donne tentano di combattere. La violenza di genere è una violenza perpetuata sulle donne proprio in quanto categoria storicamente, culturalmente e socialmente resa ostaggio dalla dominazione maschile nella società; una violenza che ricorre alla sottomissione sociale, economica, lavorativa della donna, che si nutre del controllo sul corpo femminile e che propone un’immagine di donna vincente solo grazie al suo aspetto fisico e che deve avere come unico scopo il piacere dell’uomo. Non è il nudo della statua ad essere percepito come offesa, né viene dubitata la presunta artisticità della scultura: ad essere criticata è la scelta, profondamente legata a canoni sessisti, utilizzata per simboleggiare il sopruso di genere. È semplice finanziare una statua contro la violenza sulle donne, meno facile promuovere misure efficaci che creino concretamente supporti e contrastino l’esclusione e la subordinazione femminile. Secondo un’ultima ricerca sono 117 i centri antiviolenza in Italia, di cui 93 gestiti da Associazioni di donne e, di questi, solo 56 hanno case di ospitalità; a fronte di un 46 % di donne vittime di abusi e maltrattamenti. La maggior parte delle Associazioni è autofinanziata (in minima parte) e si sostiene con fondi comunali, regionali, europei che vengono continuamente interrotti o tagliati. Il sostegno alle donne, quindi, passa attraverso il privato sociale e non attraverso un’azione diretta dello Stato. Lo stesso Stato che erige statue alle donne per poi praticare drastici tagli alla spesa sociale e assistenziale, per privilegiare il finanziamento della banda del 5 %, delle spese militari, per sostenere la chiesa cattolica che da secoli impone la sudditanza femminile e ostacola la piena autonomia decisionale e di autogestione della donna, che mette continuamente in discussione la legge 194, ostacola la pillola abortiva e pratica un continuo controllo sul corpo e l’identità femminile. La violenza di genere è frutto di un’oppressione economica e culturale, che provoca una continua mercificazione e mortificazione del corpo femminile, voluta dal capitalismo per mantenere il proprio assetto di potere e di controllo. La battaglia per i diritti e l’autodeterminazione delle donne, di conseguenza, passa unicamente attraverso la lotta di classe. Solo una prospettiva rivoluzionaria che porta al rovesciamento dell’attuale assetto politico può condurre ad una liberazione dalle forme di sfruttamento delle lavoratrici e, quindi, delle donne.

29 marzo 2013
Marianna Leone - Pcl Ancona


giovedì 28 marzo 2013

UNO STRACCIO PER IL FEMMINICIDA di Loredana Lipperini


Sul Resto del Carlino di ieri viene dato ampio spazio al caso della statua di Ancona. Tra gli altri servizi (qui si legge l’intervista allo scultore Floriano Ippoliti), Maria Gloria Frattagli rivolge qualche domanda a Vittorio Sgarbi. Queste le risposte:
«E’ triste che ci sia bisogno di fare una statua contro la violenza sulle donne. Come se la loro vita valesse di più di quella di un omosessuale ucciso o di un gioielliere ucciso come accaduto nei giorni scorsi a Milano. Non riesco a capire perché si debba dare maggiore valore a questa cosa, credo che le donne stesse siano le prime ad opporsi». Parole di Vittorio Sgarbi, buon conoscitore di Ancona, che chiamato in causa per dire la sua sulla statua da critico d’arte parla più del valore simbolico che della scultura e di come esteticamente è stata giudicata.
Mal’opera le piace?
«La statua non mi sembra brutta se fosse stata all’interno della Mole Vanvitelliana nessuno se ne sarebbe accorto o perlomeno non avrebbe fatto tutto questo rumore. La discriminazione sarebbe rimasta all’interno di quattro mura invece che mostrarsi a tutta la città».
Quindi più che un motivo artistico c’è una ragione strumentale?
«Esattamente. Ancona è una città incolta, forse la più incolta d’Italia che dà spazio a una moda tra l’altro su un reato che è stato inventato, ovvero il femminicidio. Possiamo dire che l’omosessualicidio non esiste? No, non lo possiamo dire. Io non sono per la visione di genere, per esempio sono frequentemente soggetto a stalking non per questo mi hanno fatto una statua. E non credo che Ancona d’ora in poi riempirà al città di statue di tutti i soggetti che più frequentemente vengono uccisi».
Lo speriamo…
«Ripeto, la statua in sé non è nemmeno brutta, ma proprio non ne riesco a capire il motivo, cioè cosa l’artista volesse esprimere perché non c’è ragione di accettare il ricatto del soggetto, si poteva benissimo fare una statua per ricordare tutti i tipi di violenze, avrebbe avuto più senso, sarebbe stata più adeguata ai tempi che stiamo vivendo».

Le argomentazioni di Sgarbi sono quelle consuete dei negazionisti del femminicidio: perché diversificare l’assassinio delle donne (in quanto abbandonanti, da parte di uomini di abbandonati, nella maggior parte dei casi) dagli altri tipi di violenza? Qui fornisco solo una risposta: perché nel momento in cui una tipologia di delitto viene reiterata con modalità quasi identiche, è non solo corretto, ma necessario che si chiamino le cose col loro nome. Anche con tutti i pregiudizi estetici sul nome medesimo. La risposta è parziale: ma aggiungo che fra poche settimane, nella seconda metà di aprile, potrete leggere un ragionamento più approfondito in un pamphlet scritto a quattro mani con Michela Murgia. Si chiama “L’ho uccisa perché l’amavo” e uscirà per Laterza, collana Idòla. Ne riparleremo.
Peraltro, parlare di femminicidio significa parlare anche degli inconsapevoli assist che vengono forniti dal mondo dell’immaginario. Pubblicità inclusa. Ieri mattina ho letto su Repubblica una lettera di una lettrice, Roberta Miniero, giustamente indignata per i cartelloni pubblicitari apparsi a Napoli. L’ho contattata via mail e le ho chiesto di fotografarne uno. Dunque?

















Di Loredana Lipperini


mercoledì 27 marzo 2013

E se Violata potesse dire la sua?


E se Violata potesse dire la sua su tutta questa faccenda? Se non fosse una bella statuina, immobile e muta, forte solo della sua borsetta, cosa ci racconterebbe?

"Io sono Violata e voglio poter decidere cosa mettermi questa sera senza sentirmi addosso lo sguardo morboso degli altri, il giudizio tranciante, lo stereotipo fisso. Voglio tornare a casa dopo una serata con gli amici, stanca, ubriaca e con le calze smagliate senza rischiare di essere violentata da un tassista. Voglio essere una donna prima di essere madre e moglie. Non voglio essere sempre la prima della classe (e poi ritrovarmi disoccupata o con lo stipendio più basso rispetto a quello del mio collega "maschio"). Non voglio essere bella a tutti i costi. Voglio avere le rughe, i capelli bianchi e tutti i segni dell'invecchiamento: perché io valgo comunque. Non voglio essere oggetto di possesso: né sottomessa né puttana. Non voglio le quota rosa: una riserva indiana che cancella ogni valore e merito personale. Non voglio rivendicare diritti universali, libertà individuale, autodeterminazione, pari dignità e rispetto in quanto donna ma in quanto persona. Voglio un'informazione degna di questo nome, che non racconti la violenza sulle donne come frutto di un raptus improvviso, una follia d'amore, un delitto d'onore. Non voglio una politica che dichiara guerra alla violenza sulle donne e poi mi lascia con il culo a terra, con un lavoro precario e una pensione incerta, usandomi come ammortizzatore sociale, relegandomi al ruolo di cura, a badante. Voglio asili nido pubblici. Voglio fondi per i centri anti violenza. Voglio la piena applicazione della 194. Voglio dire basta all'inganno di ginecologi obiettori di coscienza. Voglio una legge che mi permetta di mettere al mondo un figlio sano senza dover emigrare. Voglio che il mio corpo non sia usato come campo di guerra per battaglie ideologiche, politiche e religiose: abusi di potere che mi vedono sempre in posizione subalterna, sempre perdente. Non voglio una religione che m'impone il modello di una madonna santissima e in lutto perenne o quello della peccatrice di merda che ci ha fatto sfrattare dal paradiso in terra. Non voglio firmare dimissioni in bianco, "nel caso, sai, restassi in cinta". Non voglio conciliare lavoro e maternità: esiste un padre. Non voglio conciliare lavoro e maternità: esiste uno stato. Voglio avere libero accesso alla contraccezione d'urgenza. Voglio dire che un no è no sempre, che una mano sola basta, che esiste lo stupro all'interno del matrimonio e che il sesso non è un dovere coniugale, non può essere mai imposto. Che quella domestica è la violenza più diffusa, che una donna giovane ha più possibilità di morire per mano di un marito o di un ex che per tumore. Che vestirsi in modo provocante, tornare tardi e divertirsi non significa essere consenziente. e voglio, fortissimamente voglio, uscire dal medioevo triste in cui mi avete messo, preda continua senza possibilità di scelta, l'offesa addosso come un marchio. Io vacca da macello, io grande bestia. di un colore pessimo, per giunta.
Non abbiamo bisogno di un altro stupro per parlare di violenza. Non abbiamo bisogno di un altro stupro per parlare di violenza. Ma di lotta perché mai più avvenga.

Alessandra Carnaroli

Il Violatore



Ecco il bozzetto della mia proposta alternativa. Si intitola "IL VIOLATORE" e a differenza dell'opera di Floriano Ippoliti si presta a diverse chiavi di lettura : il violatore delle Istituzioni, il violatore dell'Arte, il violatore del corpo della donna.




Infatti l'opera in oggetto mostra un ominide di colore rosa che alza fiero lo scettro della sua conquista in uno slancio che si pone a metà strada tra la scimmia di 2001 Odissea nello Spazio e il Barney dei Flintstones con "Wilma, portami la Clava!"


La Clava è il simbolo del potere conquistato attraverso l'intrallazzo, la furberia, i rapporti clientelari con le istituzioni incompetenti. 

Ma la Clava potrebbe anche essere il simbolo dell'Arte usurpata (l'estetica, la bellezza, la profondità) dalla disgrazia del non saper fare.

La Clava potrebbe anche essere una Barbie, l'icona dello Stereotipo, il corpo della donna strumentalizzato e trattato come un oggetto, un trofeo da esibire come Status.

Barbara Gambini


Difficile fare di peggio


Tento un breve riepilogo di una storia di provincia. Nella mia città ad un artista abituato al rapporto con le autorità pubbliche viene in mente l'idea di un monumento dedicato alla violenza sulle donne. Lo propone all'ente Provincia, che cortesemente rifiuta. Anche perché il monumento, una scultura in fusione di bronzo, comporta una discreta spesa. Dopo il no della Provincia ci riprova con il Comune. In questo caso l'assessore sembra essere più disponibile, ma alla fine la giunta comunale rifiuta la proposta. L'artista si rivolge allora alla presidenza del Consiglio Regionale, ma anche in questo caso il parere è negativo. Lo scultore non si arrende e bussa alla porta della Commissione Regionale Pari Opportunità. La commissione è nominata dal Consiglio Regionale e dispone di fondi propri, stanziati nel bilancio regionale. La presiede l'ex assessore comunale che aveva perorato la proposta non approvata in Giunta. La Commissione Pari Opportunità approva l'idea e destina fondi propri per realizzare il monumento, coinvolgendo anche altri soggetti pubblici e privati (anche se non si conoscono le cifre che questi hanno destinato alla statua). Il costo totale sembra sia attorno ai ventimila Euro, questo almeno riporta la stampa locale.
Il monumento viene inaugurato sabato scorso, 23 marzo. Artista e committenti spiegano in questo video motivazioni e soddisfazioni. Alla cerimonia viene letto anche un messaggio inviato dalla neo-presidente della Camera Laura Boldrini, che vive a pochi chilometri dalla statua.
Lo sconcerto tra i presenti è grande. La statua, che si chiama "Violata" ed è alta due metri e venti basamento escluso, rappresenta con minuzioso realismo una donna dagli abiti lacerati che guarda fieramente avanti a sè e stringe nella mano sinistra una borsetta stile Kelly, mentre la mano destra è distesa con le cinque dita aperte. Se il fronte lascia già perplessi, il retro è indimenticabile: i drappeggi coprono tutto il torso e le cosce ma lasciano in bellavista le natiche (sopra).
Inevitabilmente i media e i social network cominciano a interessarsi alla vicenda. Alcuni siti web rilanciano e c'è anche chi scrive una lettera aperta all'autore. Un gruppo di donne crea su facebook l'evento Per la rimozione della statua "Violata" che in un paio di giorni ha quasi 400 partecipanti. Tra i commenti c'è chi scrive che "Violata" è un monumento allo stupro. Qualcuno spinge l'analisi semantica fino al significato del tunnel sullo sfondo, ma tralasciamo. Stamattina escono articoli sulle edizioni locali de Il Resto del Carlino e de Il Messaggero. Anche il TG3 regionale si occupa della questione.
Manca ancora quel piccolo step mediatico perché la notizia arrivi ad assumere una dimensione nazionale. Visto l'andazzo, non sembra ci vorrà molto. Poi a seguire aspettiamoci Le Jene, Il Gabibbo, Sortino, magari persino l'artista invitato nel salotto domenicale della D'Urso. Ah, dimenticavo: ovviamente nel dibattito è già intervenuto anche Sgarbi.

lunedì 25 marzo 2013

COME VENGONO RICORDATE LE VITTIME DI VIOLENZA IN ITALIA da ComunicazionediGenere


La prima statua contro la violenza sulle donne“, esordisce la stampa italiana. E’ la statua “violata” dello scultore italiano Floriano Ippoliti,  fortemente voluta dalla Regione e comune di Ancona e inaugurata  il 23 marzo.  Una scultura che se non fosse dedicata alle donne vittime di violenza di genere  sarebbe anche bella.
L’idea di averla dedicata ad una donna stuprata e uccisa mentre tornava a casa, la rende quantomeno inappropriata. Quello che vedete nella fotografia è il lato A della scultura, tutta blu da assomigliare più a un Avatar di Pandora piuttosto che ad una donna vittima di violenza, mentre il lato B ve lo lascerei soltanto immaginare: tutto scoperto ovviamente.
Una statua che  non mi è piaciuta per niente poiché malgrado le statistiche e le cronache raccontano che la violenza sulle donne è quasi prevalentemente domestica,  ripropone lo stesso luogo comune secondo il quale la violenza sulle donne avviene sempre fuori dalle mura domestiche e lo stereotipo che vuole le vittime  esteticamente piacenti e abbigliate in modo provocante; dunque, piuttosto che dare un messaggio positivo indica quello che una donna stuprata mai vorrebbe sentirsi dire: “te lo sei cercata!”. In poche parole, piuttosto che un monumento dedicato alle vittime mi sembra un’apologia alla violenza di genere.
Le donne di Ancona hanno protestato e aperto un evento di facebook che chiede la rimozione immediata della statua che sarà installata su una rotonda della città. A seguito delle proteste, Ippoliti spiega che la statua rappresenta una donna che si rialza in piedi a testa alta diversamente dalla rappresentazione delle vittime di violenza che spesso vediamo sui giornali.
Ma era necessario proporre un altro stereotipo? Non era meglio rappresentare una donna che combatte e che vince una “guerra”? O forse era troppo rivoluzionario per il nostro paese  rispetto all’immagine che abbiamo delle donne in Italia? Ma sopratutto, è sufficiente dedicare una statua per ricordare le donne che subiscono violenza?
In Italia ogni 3 giorni viene uccisa una donna e la violenza domestica è la prima causa di morte ed invalidità per le donne di tutte le età;  in Italia non esiste una legge specifica contro la violenza domestica, i centri antiviolenza chiudono perché i fondi sono stati tagliati durante il precedente governo e persiste una forte cultura maschilista che tende a discriminare le donne e a sottovalutare il fenomeno della violenza sulle donne, ragion per cui poche denunce di violenza finiscono con una condanna. Pochi giorni fa si è conclusa a New York la 57a “Commission on the Status of Women” delle Nazioni Unite dove 193 paesi del mondo hanno firmato una carta per prevenire  la violenza sulle donne. Nel testo di 17 pagine si condannano la violenza contro donne e bambine, chiedendo maggiore attenzione ai governi per prevenire e contrastarla, mediante una rete di servizi a sostegno delle donne, la fine dell’impunità dei responsabili, il diritto alla salute sessuale e riproduttiva, il diritto all’uguaglianza di genere. Come se non bastasse i giornali italiani hanno parlato veramente poco di questo evento. Quindi, la violenza sulle donne è davvero un tema che interessa al nostro Paese? evidentemente no, visto che a qualcuno viene permesso di offendere tutte le vittime di violenza e tutte le donne italiane e definito perfino un grande artista.

Ancona e la statua nuda contro la violenza sulle donne da Abbattoimuri



E’ la statua “violata” di Ippoliti la cui inaugurazione è stata fatta il 23 marzo ad Ancona e che è destinata ad uno spazio presso la rotonda della Galleria San Martino.
Sulla pagina facebook che annuncia l’inaugurazione così viene presentata l’opera:
Un emblema per ricordare che “Il rispetto è un diritto, sempre”.
Una statua contro la violenza nei confronti delle donne sarà donata sabato prossimo al Comune di Ancona. L’Amministrazione, che ha messo a disposizione lo spazio dove la scultura dell’artista Floriano Ippoliti sarà collocata ovvero nei pressi della rotonda della Galleria San Martino, in questo modo manifesta la propria sensibilità nei confronti delle donne che devono quotidianamente fare i conti con forme diverse di violenza, da quella psicologica a quella fisica fino al femminicidio. Essa pertanto vuole essere un monito ma anche un fattore di sensibilizzazione riguardo ad una problematica che troppo spesso sale agli onori della cronaca.

Non conosco la vicenda direttamente ma me la segnala Alessandra che mi dice anche che le donne di Ancona non sono poi così contente di questa iniziativa. Anzi. C’è chi vuole addirittura abbatterla. Un altro gruppo facebook dichiara infatti come questa statua, che secondo il servizio in video in basso sarebbe stata finanziata con soldi pubblici e contributi privati, sia “una offesa per le donne” (quali donne? chi? tutte?).
Motivo per cui si chiede la rimozione della statua sarebbe infatti che:
(…) il risultato di un anno di lavoro dello scultore Ippoliti è una statua che rappresenta una donna seminuda, avvenente nella mortificazione a cui è sottoposta. Una rappresentazione che non contrasta lo stereotipo dell’immagine femminile. Un monumento educa lo sguardo e i pensieri, anzitutto dei più giovani. Una offesa alle donne.
Questo il servizio televisivo sulla inaugurazione dell’opera.
La presidente della commissione pari opportunità che vedete in video è anche responsabile provinciale del Moica, il movimento italiano casalinghe. L’assessora alle pari opportunità regionale invece è una signora del Pd.
Tutto ciò mentre su un’altra pagina facebook, quella di Se Non Ora Quando, e grazie a Martina che me l’ha segnalato, si discute vivacemente circa l’opportunità di veicolare un messaggio politico attraverso il corpo nudo come fanno le Femen.
Cosa che rende quasi impossibile in Italia parlare di Slut Walk, per esempio (partecipate al laboratorio su questo delle Ribellule a Roma se potete), o cosa, che addirittura, in senso paternalistico, viene ritenuto offensivo tanto quanto e assimilabile al linguaggio sessista/patriarcale.
Non oso pensare cosa pensino le une e le altre, indignate, della campagna di FaS My body, my choice, corpi liberati contro la violenza sulle donne, dove si ribadisce intanto la libertà di scegliere come si vuole vivere ogni genere di relazione sessuale e poi si ribadisce la libertà di mostrare il corpo quanto e come si vuole. Corpi nudi, giacché il corpo è uno spazio politico, corpi autodeterminati, non identificabili in una dimensione vittimista o paternalista, ma pienamente inclini a perseguire il proprio piacere o comunque la propria modalità di relazione, fuori da ogni moralismo, dove la lotta contro la violenza sulle donne è diventata il mezzo attraverso il quale si identifica un “noi donne” (da lì il Donnismo) (indignate) che è etero-normativo, che stabilisce forme attraverso le quali le donne dovrebbero stare al mondo, secondo una visione stereotipata, autoritaria e anacronistica della realtà.
Alessandra ha una visione un po’ diversa e articolata del semplice essere scandalizzata dalla nudità. Lei dice:
Credo che il limite maggiore di questa opera stia nel rappresentare la donna, ancora una volta, come vittima. Una donna che non si ribella ma quasi ostenta un’accettazione della dolore fisico e psicologico subìto. Il particolare della borsetta ci racconta poi che non si tratta di violenza domestica (la maggior parte delle violenze subite dalla donne) ma di una violenza avvenuta “all’esterno” probabilmente da parte di uno sconosciuto (e chissà magari in qualche modo giustificata dall’avvenenza della donna stessa che, di stereotipo sessista in stereotipo sessista, magari si trovava sola, a tarda ora, in un luogo buio…). Dobbiamo imparare a rappresentare la lotta alla violenza sulle donne come una lotta, appunto. Donne (e uomini) capaci di autodeterminarsi e di dire basta, di ribellarsi, di interrompere una racconto violento che le vede ai margini, incapaci di difendersi, bisognose di cure e protezione. Questa è la donna che vogliamo veder rappresentata, questa la donna che, ogni giorno, rappresentiamo.
Aggiunge:
E’ una donna che ancora una volta non “parla”, non si rappresenta se non attraverso un corpo-non corpo che poco dice oltre la violenza subita. Il corpo delle donna come luogo di protesta, di battaglia, di lotta non solo di abuso, di violazione. Forse è questo che davvero manca e mi offende in questa statua.
e
Sulla qualità dell’opera (come ex studentessa d’arte) ho molto da ridire, ma non è questo il punto. Ci sono nuove immagini per rappresentare la lotta alla violenza sulle donne. Anche perché qui si continua a far confusione: commemorare le vittime di violenza non è la stessa cosa che “rendere omaggio” o creare un’immagine per rappresentare l’impegno contro la violenza. E, credo, che sia proprio questo quello di cui abbiamo bisogno: non un monumento ai caduti, per buttargli addosso ancora un po’ di terra (e dimenticarcene prima) ma di forme di ribellione e impegno. Non “l’io c’ero” ma l’”eccomi, sono qua, pront* ad inventare nuovi modi per gestire la mia vita e le mie relazioni. Ripeto non è il nudo che mi indigna ma come questo nudo ci dica poco…
Come dicevo a lei secondo me:
- l’errore sta nel cercare modi per commemorare queste cadute in guerra, perché se è così che le rappresenti e le vuoi pure commemorare non può che venirne fuori una immagine così stereotipata. E’ tutta la lettura della questione nel suo insieme che diventa più che la commemorazione di una vittima di violenza la celebrazione del patriarcato, dei tutori e dellacultura pietosa-assistenzialista che infatti non sa fare altro che mostrarla come soggetto scippato agli affetti familiari, la moglie che orgogliosamente se ne va in giro con gli abiti strappati e la borsetta miracolosamente rimasta nei dintorni e in mano dopo aver subito, immagino, uno stupro da parte di un immigrato, magari rumeno, perché no.
- l’errore sta anche nel fatto di immaginare di unire le donne, rimuovendo conflitti di classe e identità politica, da un lato per costruire una statua, e qui mi chiedo quant’è costata e se non si poteva fare qualcosa di utile per prevenire la violenza invece che commemorarla, e dall’altro per abbatterla o rimuoverla (la statua), immaginando di procedere in ronda, unite a demolire qualcun@ o qualcosa (stessa logica dei linciaggi di branco…) invece che lottare contro una cultura intera a prescindere da chi, donne incluse, la veicola, identificando il sentire delle singole con quello di tutte e tra l’altro rinominando bisogni di donne che potrebbero avere invece bisogno d’altro.
Lo dico sapendo cosa sia una violenza. Le donne che ho conosciuto e che hanno subito violenza, me compresa, non hanno bisogno di statue. Non c’è bisogno neppure di abbatterne una perché ha tette e culo al vento.
Quello che serve è meno distrazione di massa e più scelte concrete di prevenzione e tra le scelte da fare per prevenire, incluso lavoro, il ridiscutere i ruoli di genere, c’è anche la faccenda degli stereotipi che in termini culturali creano le condizioni affinché le persone siano rappresentate in modi che poi in realtà quelle violenze le riproducono e le favoriscono.
Mentre si fa una statua a commemorarMi, mettendomi tra l’altro in mano una borsetta invece che un bastone, si stabilisce che io sia una “vittima” vittimizzata, che abbia bisogno di un tutore, che l’uomo che non mi fa da tutore è già solo e semplicemente un carnefice, che ho bisogno anche di donne e uomini che devono moralizzare la mia maniera di esporre il corpo, che l’unico essere da cui dovrei difendermi sia un uomo immigrato e così potrei andare avanti per un bel pezzo.
Non condivido l’idea della rimozione o della censura di nulla. Vedrei bene una serie di graffiti attorno a quella signora molto bella, questo monumento al martirio e alla cultura patriarcale, la cui nudità è l’unica cosa che me la fa piacere, di collettivi e femminismi e persone che non fanno da megafono alle rappresentanze istituzionali e che sanno rappresentare i ruoli di genere, le mille forme in cui si esplicita la violenza e anche i tanti modi che una donna ha di reagire alla violenza che con quella immagine non c’entrano affatto. Vedrei bene che non fossero altri a dirmi di cosa io ho bisogno perché, e ve lo assicuro, le persone, ché siamo persone e non portatrici di donnità vittimista di alcun genere, quelle che hanno subito violenza, tra mancanza di reddito, casa, prospettive, assenza di condivisione dei ruoli di cura, quando questo avviene,  sanno perfettamente ciò che vogliono e tra queste necessità, temo, non credo proprio ci sia una statua che elegge la donna a santa, la santa a martire e la vittima a status symbol.
Volete una immagine di donna orgogliosa che lotta per non essere prevaricata e viene costantemente offesa? Provate a guardare qui cosa sia una donna forte, dritta, degna, che sfida il patriarcato, e vedrete che invece che una statua, che di fatto consolida il potere nelle sue strategie di divisione economica e sociale, si beccherà solo una manganellata.

Ancona e la statua nuda contro la violenza sulle donne


E’ la statua “violata” di Ippoliti la cui inaugurazione è stata fatta il 23 marzo ad Ancona e che è destinata ad uno spazio presso la rotonda della Galleria San Martino.
Sulla pagina facebook che annuncia l’inaugurazione così viene presentata l’opera:

Un emblema per ricordare che “Il rispetto è un diritto, sempre”.

Una statua contro la violenza nei confronti delle donne sarà donata sabato prossimo al Comune di Ancona. L’Amministrazione, che ha messo a disposizione lo spazio dove la scultura dell’artista Floriano Ippoliti sarà collocata ovvero nei pressi della rotonda della Galleria San Martino, in questo modo manifesta la propria sensibilità nei confronti delle donne che devono quotidianamente fare i conti con forme diverse di violenza, da quella psicologica a quella fisica fino al femminicidio. Essa pertanto vuole essere un monito ma anche un fattore di sensibilizzazione riguardo ad una problematica che troppo spesso sale agli onori della cronaca.
Non conosco la vicenda direttamente ma me la segnala Alessandra che mi dice anche che le donne di Ancona non sono poi così contente di questa iniziativa. Anzi. C’è chi vuole addirittura abbatterla. Un altro gruppo facebook dichiara infatti come questa statua, che secondo il servizio in video in basso sarebbe stata finanziata con soldi pubblici e contributi privati, sia “una offesa per le donne” (quali donne? chi? tutte?).
Motivo per cui si chiede la rimozione della statua sarebbe infatti che:
(…) il risultato di un anno di lavoro dello scultore Ippoliti è una statua che rappresenta una donna seminuda, avvenente nella mortificazione a cui è sottoposta. Una rappresentazione che non contrasta lo stereotipo dell’immagine femminile. Un monumento educa lo sguardo e i pensieri, anzitutto dei più giovani. Una offesa alle donne.
Questo il servizio televisivo sulla inaugurazione dell’opera.
La presidente della commissione pari opportunità che vedete in video è anche responsabile provinciale del Moica, il movimento italiano casalinghe. L’assessora alle pari opportunità regionale invece è una signora del Pd.
Tutto ciò mentre su un’altra pagina facebook, quella di Se Non Ora Quando, e grazie a Martina che me l’ha segnalato, si discute vivacemente circa l’opportunità di veicolare un messaggio politico attraverso il corpo nudo come fanno le Femen.
Cosa che rende quasi impossibile in Italia parlare di Slut Walk, per esempio (partecipate al laboratorio su questo delle Ribellule a Roma se potete), o cosa, che addirittura, in senso paternalistico, viene ritenuto offensivo tanto quanto e assimilabile al linguaggio sessista/patriarcale.
Non oso pensare cosa pensino le une e le altre, indignate, della campagna di FaS My body, my choice, corpi liberati contro la violenza sulle donne, dove si ribadisce intanto la libertà di scegliere come si vuole vivere ogni genere di relazione sessuale e poi si ribadisce la libertà di mostrare il corpo quanto e come si vuole. Corpi nudi, giacché il corpo è uno spazio politico, corpi autodeterminati, non identificabili in una dimensione vittimista o paternalista, ma pienamente inclini a perseguire il proprio piacere o comunque la propria modalità di relazione, fuori da ogni moralismo, dove la lotta contro la violenza sulle donne è diventata il mezzo attraverso il quale si identifica un “noi donne” (da lì il Donnismo) (indignate) che è etero-normativo, che stabilisce forme attraverso le quali le donne dovrebbero stare al mondo, secondo una visione stereotipata, autoritaria e anacronistica della realtà.
Alessandra ha una visione un po’ diversa e articolata del semplice essere scandalizzata dalla nudità. Lei dice:
Credo che il limite maggiore di questa opera stia nel rappresentare la donna, ancora una volta, come vittima. Una donna che non si ribella ma quasi ostenta un’accettazione della dolore fisico e psicologico subìto. Il particolare della borsetta ci racconta poi che non si tratta di violenza domestica (la maggior parte delle violenze subite dalla donne) ma di una violenza avvenuta “all’esterno” probabilmente da parte di uno sconosciuto (e chissà magari in qualche modo giustificata dall’avvenenza della donna stessa che, di stereotipo sessista in stereotipo sessista, magari si trovava sola, a tarda ora, in un luogo buio…). Dobbiamo imparare a rappresentare la lotta alla violenza sulle donne come una lotta, appunto. Donne (e uomini) capaci di autodeterminarsi e di dire basta, di ribellarsi, di interrompere una racconto violento che le vede ai margini, incapaci di difendersi, bisognose di cure e protezione. Questa è la donna che vogliamo veder rappresentata, questa la donna che, ogni giorno, rappresentiamo.
Aggiunge:
E’ una donna che ancora una volta non “parla”, non si rappresenta se non attraverso un corpo-non corpo che poco dice oltre la violenza subita. Il corpo delle donna come luogo di protesta, di battaglia, di lotta non solo di abuso, di violazione. Forse è questo che davvero manca e mi offende in questa statua.
e
Sulla qualità dell’opera (come ex studentessa d’arte) ho molto da ridire, ma non è questo il punto. Ci sono nuove immagini per rappresentare la lotta alla violenza sulle donne. Anche perché qui si continua a far confusione: commemorare le vittime di violenza non è la stessa cosa che “rendere omaggio” o creare un’immagine per rappresentare l’impegno contro la violenza. E, credo, che sia proprio questo quello di cui abbiamo bisogno: non un monumento ai caduti, per buttargli addosso ancora un po’ di terra (e dimenticarcene prima) ma di forme di ribellione e impegno. Non “l’io c’ero” ma l’”eccomi, sono qua, pront* ad inventare nuovi modi per gestire la mia vita e le mie relazioni. Ripeto non è il nudo che mi indigna ma come questo nudo ci dica poco…
Come dicevo a lei secondo me:
- l’errore sta nel cercare modi per commemorare queste cadute in guerra, perché se è così che le rappresenti e le vuoi pure commemorare non può che venirne fuori una immagine così stereotipata. E’ tutta la lettura della questione nel suo insieme che diventa più che la commemorazione di una vittima di violenza la celebrazione del patriarcato, dei tutori e dellacultura pietosa-assistenzialista che infatti non sa fare altro che mostrarla come soggetto scippato agli affetti familiari, la moglie che orgogliosamente se ne va in giro con gli abiti strappati e la borsetta miracolosamente rimasta nei dintorni e in mano dopo aver subito, immagino, uno stupro da parte di un immigrato, magari rumeno, perché no.
- l’errore sta anche nel fatto di immaginare di unire le donne, rimuovendo conflitti di classe e identità politica, da un lato per costruire una statua, e qui mi chiedo quant’è costata e se non si poteva fare qualcosa di utile per prevenire la violenza invece che commemorarla, e dall’altro per abbatterla o rimuoverla (la statua), immaginando di procedere in ronda, unite a demolire qualcun@ o qualcosa (stessa logica dei linciaggi di branco…) invece che lottare contro una cultura intera a prescindere da chi, donne incluse, la veicola, identificando il sentire delle singole con quello di tutte e tra l’altro rinominando bisogni di donne che potrebbero avere invece bisogno d’altro.
Lo dico sapendo cosa sia una violenza. Le donne che ho conosciuto e che hanno subito violenza, me compresa, non hanno bisogno di statue. Non c’è bisogno neppure di abbatterne una perché ha tette e culo al vento.
Quello che serve è meno distrazione di massa e più scelte concrete di prevenzione e tra le scelte da fare per prevenire, incluso lavoro, il ridiscutere i ruoli di genere, c’è anche la faccenda degli stereotipi che in termini culturali creano le condizioni affinché le persone siano rappresentate in modi che poi in realtà quelle violenze le riproducono e le favoriscono.
Mentre si fa una statua a commemorarMi, mettendomi tra l’altro in mano una borsetta invece che un bastone, si stabilisce che io sia una “vittima” vittimizzata, che abbia bisogno di un tutore, che l’uomo che non mi fa da tutore è già solo e semplicemente un carnefice, che ho bisogno anche di donne e uomini che devono moralizzare la mia maniera di esporre il corpo, che l’unico essere da cui dovrei difendermi sia un uomo immigrato e così potrei andare avanti per un bel pezzo.
Non condivido l’idea della rimozione o della censura di nulla. Vedrei bene una serie di graffiti attorno a quella signora molto bella, questo monumento al martirio e alla cultura patriarcale, la cui nudità è l’unica cosa che me la fa piacere, di collettivi e femminismi e persone che non fanno da megafono alle rappresentanze istituzionali e che sanno rappresentare i ruoli di genere, le mille forme in cui si esplicita la violenza e anche i tanti modi che una donna ha di reagire alla violenza che con quella immagine non c’entrano affatto. Vedrei bene che non fossero altri a dirmi di cosa io ho bisogno perché, e ve lo assicuro, le persone, ché siamo persone e non portatrici di donnità vittimista di alcun genere, quelle che hanno subito violenza, tra mancanza di reddito, casa, prospettive, assenza di condivisione dei ruoli di cura, quando questo avviene,  sanno perfettamente ciò che vogliono e tra queste necessità, temo, non credo proprio ci sia una statua che elegge la donna a santa, la santa a martire e la vittima a status symbol.
Volete una immagine di donna orgogliosa che lotta per non essere prevaricata e viene costantemente offesa? Provate a guardare qui cosa sia una donna forte, dritta, degna, che sfida il patriarcato, e vedrete che invece che una statua, che di fatto consolida il potere nelle sue strategie di divisione economica e sociale, si beccherà solo una manganellata.


sabato 23 marzo 2013

Lettera aperta a Floriano Ippoliti di Cristina Obber


Buongiorno signor Ippoliti,
le scrivo per esprimerle il mio rammarico di fronte alla sua
 statua “Violata”, che trovo essere un manifesto alla sordità, al non ascolto.
Lei stesso ammette di essere stato ispirato da un suo pensiero,  di essersi chiesto “Cosa farebbe mia moglie?” e di essersi dato una risposta, personale e risolutiva, senza interrogarsi  oltre.
 Ma la risposta è altrove.
Se avesse ascoltato una sola donna violata per davvero e non nella sua immaginazione, avrebbe trovato quella risposta.
Quella donna le avrebbe detto che dopo uno stupro non ci si alza con lo sguardo fiero, né tanto meno con la mano aperta verso la vita.
Quella donna le avrebbe detto che dopo uno stupro ci si sente umiliate, distrutte,
 con il corpo lacerato da farti male anche camminare, con lo sguardo abbassato perché non sai dove guardare.
La fierezza, la forza, la fiducia nella vita e nelle persone, ritornano, è vero,
 ma dopo.
Dopo un percorso difficile e faticoso per ricostruirsi un pezzetto alla volta, con l’aiuto di chi ti sa soprattutto ascoltare, appunto.
Credo però nelle sue buone intenzioni, non mi pare lei violento nei modi e negli intenti.
Si fidi della mortificazione che la sua statua ha suscitato in me come in tante donne, si fidi della rabbia che stiamo condividendo, anche con molti uomini, per un’opera che rafforza gli stereotipi peggiori anziché lottare per demolirli.
Si fidi di ciò che conta e che le può far dire con serenità che ha peccato di ingenuità e ha sbagliato, e chieda lei stesso di rimuovere la sua statua dalla sua città.
Che importa il tempo che vi ha dedicato se invece della materia ha scalfito gli animi?
Non va di moda l’umiltà, da un po’.
Ma io le chiedo di essere un uomo e un artista proprio in questo.
La invito a un atto di umiltà, semplice e
 rispettoso della vita, come forse voleva essere.