Ad Ancona nei pressi dell’imbocco della galleria San Martino, a pochi passi dalla Mole Vanvitelliana, a fine marzo viene inaugurata una statua dello scultore Ippoliti “…dedicata alle donne vittime di violenza”.Il fatto è che tale opera ha scatenato una forte opposizione multi-genere con la promozione di una petizione per la rimozione e eventuale collocazione in altra sede, ripulita da ogni riferimento alla violenza di genere.
Cerchiamo però di affrontare il problema e capire a cosa siamo di fronte.
Forse, malevolmente, si è cercato un compromesso, lasciandola sospesa nell’immaginario grazie alla location, proprio all’ingresso di una galleria?
In fondo è arte ed è anche possibile che Courbet e l’ignoto scalpellino della chiesetta di Corsignano (SI) non abbiano insegnato nulla e ancora, appunto nel 2013 la rappresentazione della femminilità, che dovrebbe quindi riportarci immediatamente alla naturalità di un’ identità esistente resti sottesa allo stereotipo della malizia e del vedo e non vedo. In un’epoca in cui “tette e culi” rappresentano il biglietto da visita e l’accesso alla carriera, che resta allora a ricordarci l’idea della violazione? I vestiti strappati? L’immancabile borsetta ancora stretta nella mano stile “die with your boots on”, oggetto che strizza l’occhio alla retorica del martire guerriero, alla stampella di un Toti, pronta per essere scagliata contro l’oppressore? Furbescamente e non a caso ci raccontano che in realtà il messaggio (ma allora è pubblicità, non Arte), della statua sia la rappresentazione della dignità e della fierezza della donna violentata che si rialza. Ma allora, non solo cade, sprofonda, si sotterra la minima ambizione ad essere opera d’arte, nel momento in cui il messaggio immediato, banale, oggettuale, mi viene raccontato e soprattutto imposto a giustificare un atto simile. Ma poi, si cade definitivamente nel retorico, perchè da parte di un’amministrazione comunale non c’è nulla di più ipocrita, nulla di più retorico, nulla di più consolatorio che la “rappresentazione” sociale e politica della dignità e della fierezza. Niente di più rassicurante per una società, culturalmente artefice e responsabile di un atto così iniquo, che il vedere una donna “violata” rialzarsi nella solitudine più totale e girarsi per ricominciare. Niente di più rassicurante che mettere la violenza sulla donna alla stregua di una sfiga capitata alla poveretta di turno invece di avere il coraggio (e se l’arte non ha coraggio, che arte è?) di porre l’accento sul dramma sociale e quindi cittadino che ciò rappresenta. Una notte qualcuno ha posto simbolicamente un accappatoio; tacciato sul quotidiano locale come atto di censura (il riferimento al mutandaggio censoreo su Michelangelo risulta esilarante) in realtà si è voluto spostare retoricamente di nuovo, svilendo (ma guarda…) il senso di un gesto a mio parere assolutamente artistico, azione situazionista di rispetto nei confronti di chi aveva subito una tale violenza e che non si è rialzata per “merito” di una città e che anzi adesso si trova costretta ad interfacciarsi quotidianamente con la stessa “lacerazione e solitudine”. Io la statua l’ho vista e dopo una trista visita alla Mole vanvitelliana, capolavoro dell’architettura italiana, pochi metri più avanti. Viste le condizioni in cui versa, forse sarebbe meglio cominciare a recuperare altrove la dignità della città, recuperando spazi utili alla socialità alla conoscenza reciproca, alla cultura, uniche “terapie” verso un male che è sociale e non casuale.
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