ICONOGRAFIA E ICONOLOGIA
Una donna
salda sulle proprie gambe. Il busto eretto, le braccia tese e leggermente
divaricate, i vestiti strappati – ad arte. Vista di fronte mostra il viso e il seno fiera. Vista dalla parte
opposta scopre le natiche a causa della
sorprendente esattezza della lacerazione della veste. Il corpo giunonico è
contraddetto da quello che, in altra sede, si direbbe un inserto ironico: la
borsetta.
Sul piano
iconografico i riferimenti sono molti. Dai kouroi di età arcaica alla classica
Giunone e, soprattutto, alle polene delle navi e a sant’Agata, martirizzata con
l’asportazione del seno e per questo spesso rappresentata con la veste
abbassata sull’addome. Attorno, uomini beceri armati di tenaglie.
C’è poi un
piano iconologico che interessa per due ordini di idee.
Il primo: la donna si rialza fiera. Assistiamo a un
rovesciamo della rappresentazione tradizionale, che vuole la donna raccolta su
se stessa, accartocciata, sostenuta da mani altrui, costretta da quel misto di
dolore, paura, rassegnazione e vergogna che rende la violenza sessuale
l’esercizio più scellerato di potere di un essere vivente su un altro. Teatro,
letteratura e cinema ci hanno trasmesso la fatica, per la donna violata, di
riappropriarsi della propria esistenza. Di una dignità. Pensiamo a Franca
Rame,
a Concita Di Gregorio, allaJodie Foster di Sotto
accusa,
antipatica e provocatrice, e per questo ancora più capace di colpire allo
stomaco lo spettatore.
Qui, la donna si solleva sulle proprie gambe e drizza in avanti il busto,
mostrando fiera il corpo e il seno simbolo della sua femminilità, oltre che sede della
violenza subita. E’ sola e pronta a riprendersi il suo ruolo (la borsetta) e
sembra quasi non abbia bisogno di niente. Si cela così, nell’opera, un’idea di fierezza
ambigua, come se la società possa anche fare a meno di esercitare un ruolo – di
sostegno, di protezione, di ascolto, di attribuzione della dignità perduta. Se
la cava da sola, lei!
Il secondo: la donna morbosamente scolpita e
svestita.
Non so se intenzionalmente, lo scultore – e non è un caso un certo diffuso e
pruriginoso scandalo – riflette l’essenza voyeuristica del tempo: la statua è
parente stretta delle immagini e dei video che spiamo attraverso i monitor,
soffermandoci sul dettaglio della tortura, della violenza e della tragedia. La
guardiamo, ci offendiamo e la spiamo, quindi ci incazziamo anche di più. Che
sia un effetto voluto o no, c’è dentro questo manufatto, come spesso accade,
una verità. E noi ce la prendiamo perché riconosciamo il nostro sguardo.
CENSURA
Distinguiamo:
c’è chi solleva il problema dell’estetica – arte o non arte – e
chi invece parla di offesa alle donne, prime fra
tutte alle vittime delle violenze. La storia dell’arte e del costume è piena di
opere più o meno riuscite e rifiutate, ma in un certo senso colpisce, nell’era
della condivisione dei contenuti, l’esercizio della censura. Trecento, quattrocento
o duemila firme si possono raccogliere per togliere di mezzo qualsivoglia
opera, per impedire la programmazione di un film, per eliminare dagli scaffali
un libro. Per questo, il discorso estetico va condotto su altri binari: è vero,
il brutto ci pervade e violenta le
nostre città, ma lo si affronta con l’educazione al bello e con la diffusione
del bello, disinnescandolo cioè, e circondandolo. Esisteranno sempre libri
brutti, film brutti, quadri e sculture brutte. Il problema è quando esistono
solo questi, e quando chi si occupa della cosa pubblica non si arma di
strumenti di giudizio validi. Ben diversa è la questione dell’offesa alle donne e
alle vittime della violenza, poeticamente espressa nel suo blog da Luna Margherita. Se un’opera, non importa se riuscita o meno,
arreca ulteriore danno psicologico alle vittime di violenza, allora stiamo
parlando d’altro. E in questo caso la parola va data alle associazioni di
donne, a chi si occupa da tempo di queste problematiche, e sarà bene trascurare
la querelle sulla validità artistica
della giunonica polena.
AUTOREVOLEZZA
Validità
artistica, appunto. La scultura e il dibattito attorno ad essa sono figli di
un’epoca difficile. Iniziava, l’epoca, negli anni Settanta e infatti lo storico
dell’arte Hans Belting prendeva di petto la
questione in un piccolo libro dal titolo emblematico: La
fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte. Belting sosteneva
l’opportunità di considerare “l’indagine sul mezzo artistico, sull’uomo storico
e le sue immagini del mondo” come “un esperimento permanente” e anticipava così
un’epoca priva di storia e piena di cronaca,
vuota di riferimenti, che ci lascia liberi sì, ma liberi di cosa? Un discorso
caro allo psicoanalista Massimo Recalcati, maitre a penser dell’evaporazione della
figura paterna, che non si traduce in rimpianto di autorità, ma in conferma
della vittoria di un discorso capitalista e consumista: “come vi può essere
educazione – e dunque formazione – se l’imperativo che orienta il discorso
sociale s’intona perversamente come un ‘perché no?’ che rende insensata ogni
esperienza del limite? Come si può introdurre la funzione virtuosa del limite
[…] se tutto tende a sospingere verso l’apologia cinica del consumo e
dell’appagamento senza differimenti?”.
Nel caso della storia e della critica d’arte tutto ciò si traduce
nella libertà d’essere artista di ognuno al di fuori di un limite posto dalla
tradizione – non rinnegata, come si conviene, ma semplicemente negata – o dalla
critica che s’è affossata da sola, alla pari un po’ della politica odierna, tra
giochetti, favori, perdita di spinta ideale, battibecchi e creazione a tavolino
di fenomeni. Ildesiderio dell’artista, oggi, non è più
appartenere a una storia dell’arte, ma ottenere consensi immediati dal pubblico
più vasto possibile, rincorrendo giocoforza l’originalità e la sorpresa e, in
tal modo, i “mi piace” che attestano di fatto
l’essere artistico di un manufatto.
Tutti, così,
diventano artisti e critici, urbanisti e architetti, ma anche e soprattutto consumatori del prodotto-arte, cui mettono stellette
come su un ostello di TripAdvisor. Il mio non è un discorso aristocratico:
nella prima metà del Seicento la cittadinanza di Mantova si ribellò con violenza
alla scelta dei Gonzaga di alienare buona parte della collezione di Isabella
d’Este.
Sentivano, i mantovani, che la loro identità, la loro cittadinanza era legata a
quel patrimonio artistico, portatore sano di identità collettiva. La vendita li stava spogliando di se stessi,
dal momento che una collettività ha bisogno di simboli per riconoscersi e
sentirsi unita. L’arte, in questo caso, disegna un’appartenenza e garantisce ai
cittadini vita anche dopo la morte, nella prosecuzione dell’esserecittà.
Oggi la fruizione immediata e consumistica dell’opera ha sterilizzato
i maestridella
storia e della critica d’arte, i grandi padri (i Gombrich, i Panofsky, i Venturi,
i Longhi, i Brandi, i Belting) che non hanno generato prole armata dell’autorevolezza
necessaria per stabilire criteri. Criteri su cui contare ma anche, è chiaro, da
sfidare con forze giovani e creative. Così, prodotto dopo prodotto, merce dopo
merce, l’arte si disinnesca ancora prima d’essere partorita.
CRITERI RESIDUI
Per non perdersi
in questo mare e non accettare la disfatta alcuni criteri, sia pure posticci,
devono essere adottati da chi si occupa di arte e anche di cosa pubblica. In
questo caso, per affrontare un tema tanto impegnativo, è forse necessario
affidarsi a un concorso di idee, o a un altro bando simile, con tanto di
giuria il più possibile competente, al netto di quanto detto qui sopra. In
alternativa, l’artista deve vantare un curriculum straordinario, non me ne voglia
Ippoliti. Mi chiedo: può un’opera destinata a rappresentare – in una comunità,
per una comunità – il dramma della violenza sulla donna costare 17.000 euro?
Scriveva John
Ruskin nel 1857:
“stanchi di una brutta cosa da poco, la gettiamo via e ne comperiamo un’altra
altrettanto brutta: e così continuiamo a guardare cose brutte per tutta la
vita. Ora, proprio gli stessi uomini che ci propinano tutte queste brutte e
frettolose immagini sarebbero invece capaci di crearne di perfette. Soltanto
che un’opera perfetta non può essere eseguita in poco tempo, né il suo prezzo
scendere, pertanto, al di sotto di una certa soglia.”
17.000 euro è il prezzo di una Fiat Bravo EasyPower Mylife (gpl).
CONCLUDENDO
Personalmente
ritengo che Ippoliti si sia cimentato con un tema sopra le sue – e non solo
sue, ma della maggior parte dell’universo artistico – possibilità. Ma non è sul
lavoro artistico che bisogna concentrarsi, bensì sull’eventuale ferita che esso
può infliggere a parte della società. A tale riguardo si possono fare alcune
cose, la migliore delle quali mi sembra l’utilizzo dell’ironia come mezzo per annullare
l’offesa. Rispondere con un sorriso, un sorriso profondo e forte nelle radici, non un sorriso
di convenienza, è una strada doverosa, specie oggi che tutti inneggiano allo
scontro.
Potremmo considerare questa scultura l’inizio – start
up? – di un laboratorio creativo che la ingloba e
prevede l’azione di energie cittadine attorno al tema. Per la gioia postuma di
Hans Belting, e un po’ sulla scorta del suggerimento di Luna Margherita.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.