E’ la statua “violata” di Ippoliti la cui
inaugurazione è stata fatta il 23 marzo ad
Ancona e che è destinata ad uno spazio presso la rotonda della Galleria San
Martino.
Sulla pagina facebook che annuncia
l’inaugurazione così viene presentata l’opera:
“Un emblema per ricordare che “Il rispetto è un
diritto, sempre”.
Una statua contro la
violenza nei confronti delle donne sarà donata sabato prossimo al Comune di
Ancona. L’Amministrazione, che ha messo a disposizione lo spazio dove la
scultura dell’artista Floriano Ippoliti sarà collocata ovvero nei pressi della
rotonda della Galleria San Martino, in questo modo manifesta la propria
sensibilità nei confronti delle donne che devono quotidianamente fare i conti
con forme diverse di violenza, da quella psicologica a quella fisica fino al
femminicidio. Essa pertanto vuole essere un monito ma anche un fattore di
sensibilizzazione riguardo ad una problematica che troppo spesso sale agli
onori della cronaca.“
Non conosco la vicenda direttamente ma
me la segnala Alessandra che mi dice anche che le donne di Ancona non sono poi
così contente di questa iniziativa. Anzi. C’è chi vuole addirittura abbatterla. Un altro gruppo facebook dichiara
infatti come questa statua, che secondo il servizio in video in basso sarebbe
stata finanziata con soldi pubblici e contributi privati, sia “una offesa per
le donne” (quali
donne? chi? tutte?).
Motivo per cui si chiede la rimozione
della statua sarebbe infatti che:
“(…) il risultato di un anno di lavoro dello scultore
Ippoliti è una statua che rappresenta una donna seminuda, avvenente nella
mortificazione a cui è sottoposta. Una rappresentazione che non contrasta
lo stereotipo dell’immagine femminile. Un monumento educa lo sguardo e i
pensieri, anzitutto dei più giovani. Una offesa alle donne.“
Questo il servizio televisivo sulla
inaugurazione dell’opera.
Tutto ciò mentre su un’altra pagina
facebook, quella di Se Non Ora Quando, e grazie a Martina che me l’ha
segnalato, si discute vivacemente circa l’opportunità di veicolare un messaggio
politico attraverso il corpo nudo come fanno le Femen.
Cosa che rende quasi impossibile in Italia parlare di
Slut Walk, per esempio (partecipate al laboratorio su questo delle Ribellule a
Roma se potete), o cosa, che addirittura, in senso
paternalistico, viene ritenuto offensivo tanto quanto e assimilabile al
linguaggio sessista/patriarcale.
Non oso pensare cosa pensino le une e le
altre, indignate, della campagna di FaS My body, my choice, corpi
liberati contro la violenza sulle donne, dove si ribadisce intanto
la libertà di scegliere come si vuole vivere ogni genere di relazione sessuale
e poi si ribadisce la libertà di mostrare il corpo quanto e come si vuole.
Corpi nudi, giacché il corpo è uno spazio politico, corpi autodeterminati, non
identificabili in una dimensione vittimista o paternalista, ma pienamente
inclini a perseguire il proprio piacere o comunque la propria modalità di
relazione, fuori da ogni moralismo, dove la lotta contro la violenza sulle
donne è diventata il mezzo attraverso il quale si identifica un “noi donne” (da
lì il Donnismo)
(indignate) che è etero-normativo, che stabilisce forme attraverso le quali le
donne dovrebbero stare al mondo, secondo una visione stereotipata, autoritaria
e anacronistica della realtà.
Alessandra ha una visione un po’ diversa
e articolata del semplice essere scandalizzata dalla nudità. Lei dice:
“Credo che il limite maggiore di questa opera stia nel
rappresentare la donna, ancora una volta, come vittima. Una donna che non si
ribella ma quasi ostenta un’accettazione della dolore fisico e psicologico
subìto. Il particolare della borsetta ci racconta poi che non si tratta di
violenza domestica (la maggior parte delle violenze subite dalla donne) ma di
una violenza avvenuta “all’esterno” probabilmente da parte di uno sconosciuto
(e chissà magari in qualche modo giustificata dall’avvenenza della donna stessa
che, di stereotipo sessista in stereotipo sessista, magari si trovava sola, a
tarda ora, in un luogo buio…). Dobbiamo imparare a rappresentare la lotta alla
violenza sulle donne come una lotta, appunto. Donne (e uomini) capaci di
autodeterminarsi e di dire basta, di ribellarsi, di interrompere una racconto
violento che le vede ai margini, incapaci di difendersi, bisognose di cure e
protezione. Questa è la donna che vogliamo veder rappresentata, questa la donna
che, ogni giorno, rappresentiamo.“
Aggiunge:
“E’ una donna che ancora una volta non “parla”, non si rappresenta
se non attraverso un corpo-non corpo che poco dice oltre la violenza subita. Il
corpo delle donna come luogo di protesta, di battaglia, di lotta non solo di
abuso, di violazione. Forse è questo che davvero manca e mi offende in questa
statua.“
e
“Sulla qualità dell’opera (come ex studentessa d’arte)
ho molto da ridire, ma non è questo il punto. Ci sono nuove immagini per
rappresentare la lotta alla violenza sulle donne. Anche perché qui si continua
a far confusione: commemorare le vittime di violenza non è la stessa cosa che
“rendere omaggio” o creare un’immagine per rappresentare l’impegno contro la
violenza. E, credo, che sia proprio questo quello di cui abbiamo bisogno: non
un monumento ai caduti, per buttargli addosso ancora un po’ di terra (e
dimenticarcene prima) ma di forme di ribellione e impegno. Non “l’io c’ero” ma
l’”eccomi, sono qua, pront* ad inventare nuovi modi per gestire la mia vita e
le mie relazioni. Ripeto non è il nudo che mi indigna ma come questo nudo ci
dica poco…“
Come dicevo a lei secondo me:
- l’errore sta nel cercare modi per
commemorare queste cadute in guerra, perché se è così che le rappresenti e le
vuoi pure commemorare non può che venirne fuori una immagine così stereotipata.
E’ tutta la lettura della questione nel suo insieme che diventa più che la
commemorazione di una vittima di violenza la celebrazione del patriarcato, dei tutori e
dellacultura pietosa-assistenzialista che
infatti non sa fare altro che mostrarla come soggetto scippato agli affetti
familiari, la moglie che orgogliosamente se ne va in giro con gli abiti
strappati e la borsetta miracolosamente rimasta nei dintorni e in mano dopo
aver subito, immagino, uno stupro da parte di un immigrato, magari rumeno,
perché no.
- l’errore sta anche nel fatto di
immaginare di unire le donne, rimuovendo conflitti di classe e
identità politica, da un lato per costruire una statua, e
qui mi chiedo quant’è costata e se non si poteva fare qualcosa di utile per
prevenire la violenza invece che commemorarla, e dall’altro per abbatterla o
rimuoverla (la statua), immaginando di procedere in ronda, unite a demolire
qualcun@ o qualcosa (stessa
logica dei linciaggi di branco…)
invece che lottare contro una cultura intera a prescindere da chi, donne
incluse, la veicola, identificando il sentire delle singole con quello di tutte
e tra l’altro rinominando bisogni di donne che potrebbero avere invece bisogno
d’altro.
Lo dico sapendo cosa sia una violenza.
Le donne che ho conosciuto e che hanno subito violenza, me compresa, non hanno
bisogno di statue. Non c’è bisogno neppure di abbatterne una perché ha tette e
culo al vento.
Quello che serve è meno distrazione di massa e
più scelte concrete di prevenzione e tra le scelte da fare per prevenire,
incluso lavoro, il ridiscutere i ruoli di genere, c’è anche la faccenda degli
stereotipi che in termini culturali creano le condizioni affinché le persone
siano rappresentate in modi che poi in realtà quelle violenze le riproducono e
le favoriscono.
Mentre si fa una statua a commemorarMi,
mettendomi tra l’altro in mano una borsetta invece che un bastone, si
stabilisce che io sia una “vittima” vittimizzata, che abbia bisogno di un
tutore, che l’uomo che non mi fa da tutore è già solo e semplicemente un
carnefice, che ho bisogno anche di donne e uomini che devono moralizzare la mia
maniera di esporre il corpo, che l’unico essere da cui dovrei difendermi sia un
uomo immigrato e così potrei andare avanti per un bel pezzo.
Non condivido l’idea della rimozione o
della censura di nulla. Vedrei bene una serie di graffiti attorno a quella
signora molto bella, questo monumento al martirio e alla cultura patriarcale,
la cui nudità è l’unica cosa che me la fa piacere, di collettivi e femminismi e
persone che non fanno da megafono alle
rappresentanze istituzionali e che sanno
rappresentare i ruoli di genere, le mille forme in cui si esplicita la violenza e
anche i tanti modi che una donna ha di reagire alla violenza che con quella
immagine non c’entrano affatto. Vedrei bene che non fossero altri a dirmi di
cosa io ho bisogno perché, e ve lo assicuro, le persone, ché siamo persone e
non portatrici di donnità vittimista di alcun genere, quelle che hanno subito
violenza, tra mancanza di reddito, casa, prospettive, assenza di condivisione
dei ruoli di cura, quando questo avviene, sanno perfettamente ciò che
vogliono e tra queste necessità, temo, non credo proprio ci sia una statua che
elegge la donna a santa, la santa a martire e la vittima a status symbol.
Volete una immagine di donna orgogliosa
che lotta per non essere prevaricata e viene costantemente offesa? Provate a guardare qui cosa
sia una donna forte, dritta, degna, che sfida il patriarcato, e vedrete che
invece che una statua, che di fatto consolida il potere nelle sue strategie di
divisione economica e sociale, si beccherà solo una manganellata.
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